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La nostra fame di carne e soia incendia l’Amazzonia

Gli incendi divorano la foresta pluviale, distruggendo lentamente uno dei polmoni del pianeta. L’Amazzonia sta attraversando una fase critica: le colonne di fumo denso che si alzano dalla vegetazione tropicale sono il risultato delle fiamme che hanno avviluppato la macchia verde degli stati brasiliani di Amazonas, Rondonia, Mato Grosso, Parà e del Paraguay. Le immagini rimbalzate da una parte all’altra del globo mostrano l’effetto di un disastroso processo di deforestazione causato dall’appetito globale di carne e soia. Fiore all’occhiello dell’esportazione brasiliana, la domanda di questi prodotti ha spinto allevatori e agricoltori a intensificare la produzione, annientando alberi e piante del territorio e rimuovendo le popolazioni locali e indigene che lì vivono.

L'allevamento del bestiame è responsabile dell’80 per cento della deforestazione in corso: “Una parte significativa dell’offerta globale di carne bovina, compresa gran parte dell’offerta di carne in scatola in Europa, proviene da terreni che un tempo erano la foresta pluviale amazzonica” chiarisce l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale. Il Brasile è infatti uno dei più grandi esportatori al mondo: nel 2018 ha prodotto 10,96 milioni di tonnellate di carne macellata, destinandone il 20,12 per cento (2,21 milioni di tonnellate) al mercato estero per servire oltre 100 paesi tra prodotti freschi e processati.

 
 
 

Al contempo, il gigante sudamericano ha costruito un fiorente business sulla soia, competendo con gli Stati Uniti per soddisfare le esigenze della Cina, il principale acquirente internazionale. Tra il 2016 e il 2017, le due potenze dell’emisfero occidentale esportavano l’83 per cento della soia che finiva sul mercato mondiale: quella del nord, aveva venduto 59 milioni di tonnellate, l’altra 63 mmt. “Durante il periodo considerato, la Cina fu il mercato di sbocco del 61 per cento delle esportazioni di soia statunitense e il 77 per cento di quella brasiliana”

 
 

E nel corso del tempo, lo stato latinoamericano è riuscito anche ad approfittare della guerra commerciale esplosa tra Washington e Pechino. Le consegne degli Stati Uniti verso la Cina sono diminuite enormemente tra il 2018 e il 2019, a causa delle tariffe del 25 per cento imposte dalle autorità cinesi sulle importazioni statunitensi: un atto di ritorsione per i dazi decisi da Donald Trump.Le vendite degli agricoltori nordamericani sono calate, in tonnellate, dell’80 per cento rispetto ai tre anni precedenti. Il Brasile ha così riempito questo vuoto, cavalcando la crescente domanda asiatica.

 

Le vendite di soia e carne causano i roghi in Amazzonia

La fame globale di questi prodotti ha contribuito ad alimentare il fuoco che brucia l’Amazzonia. Non è infatti un fenomeno di poche settimane, ma dura ormai da tempo. Come ricorda l’Ispra, quest’anno sono stati rilevati finora circa 75 mila incendi: si tratta di un numero record, quasi il doppio rispetto agli eventi registrati nello stesso periodo del 2018. “L’istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe) ha rilevato che nel mese di luglio sono stati bruciati 225 mila ettari di foresta pluviale amazzonica, anche questo un dato senza precedenti, il triplo rispetto a quelli del luglio 2018”.

Serve un suolo adatto per il pascolo e per estendere le coltivazioni: così viene adottata la tecnica del “taglia e brucia” per liberare la terra dalla vegetazione e dalle persone che la abitano. Gli alberi sono abbattuti tra luglio e agosto, lasciati lì affinché perdano umidità e infine bruciati, con l’idea che le ceneri possano fertilizzare il terreno: “Quando ritorna la stagione delle piogge, l’umidità del suolo denudato favorisce lo sviluppo di vegetazione nuova per il bestiame”

 

Grazie ad alcune iniziative come la moratoria che contrasta l’acquisto della soia proveniente da terre soggette a deforestazione, l’impatto di queste coltivazioni sul suolo amazzonico si è ridotto, ma il problema di fondo rimane. Infatti uno studio del dicembre 2018 ha calcolato che circa 17.500 km2 del Cerrado, la grande savana tropicale del Brasile, è stata disboscata negli ultimi 11 anni per lasciare spazio alle piantagioni di soia. E la crescita della domanda cinese di questo prodotto potrebbe incoraggiare le imprese zootecniche e agro-industriali a sfruttare ancora di più il territorio.

La dieta alimentare dei consumatori cinesi è ormai cambiata, il riso ha lasciato sempre più il posto alla carne di maiale e pollo, la cui produzione è cresciuta del 250 per cento tra il 1986 e il 2012 (e dovrebbe aumentare di un altro 30 per cento entro il 2020). Per nutrire questi animali da allevamento, il paese ha bisogno di enormi quantità di mangime che non è grado di produrre da solo e che quindi deve necessariamente importare. E già ora i produttori brasiliani contano molto sul fabbisogno cinese: tra il 2016 e il 2017, avevano prodotto 114 milioni di tonnellate, esportandone 49 in Cina: in altre parole, circa il 43 per cento .

 

Sul versante della carne, invece, il Brasile ha chiuso il 2018 con volumi record di esportazioni: circa 1,64 milioni di tonnellate sono state consegnate, l’11 per cento in più rispetto all’anno precedente. Che tradotto in fatturato, ha permesso di registrate 6,75 miliardi di dollari di vendite (in crescita del 7,9 per cento sul 2017). Numeri che testimoniano una posizione di leadership, grazie a quasi 215 milioni di capi di bestiame collocati in 163 milioni di ettari di terreno

 

 

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